VENEZIA 67 – “The Happy Poet”, di Paul Gordon (Giornate degli autori)

the happy poet
Il film si costruisce come una serie di gag dalle tempistiche marcatamente ironiche, incentrate sul personaggio disadattato del protagonista. Seppure la struttura della sceneggiatura non nasconde una serie di semplicistici passaggi obbligati, la morale profonda non finisce col limitarsi ad un prevedibile “se vuoi puoi”, ma si colora di un'ingenua e fresca fiducia nel cambiamento
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the happy poet
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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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Sceneggiatore, regista, montatore ed attore protagonista, questo giovane poeta felice presenta alla platea di Venezia un piccolo film dalla grande tematica, commedia indipendente americana con morale che ruota attorno ad una verità troppo spesso dimenticata: siamo quello che mangiamo.
Bill, ragazzone timido con tanto di laurea in scrittura creativa, prova a dare una svolta alla propria vita aprendo un piccolo chiosco di cibo biologico e vegano, nientemeno che in Texas, comunemente noto come Stato sovrappeso d'America. Questa scelta eticamente motivata si rivela più complessa del previsto, portando Bill a dover fare i conti con l'ottusità cieca di chi quando vuole un hot dog, vuole un hot dog! Dietro questa propensione -assai poco ponderata- ad ingurgitare quello che capita, purché saporito ed ancor meglio se gratuito, si cela l'infinita superficialità di cui la contemporaneità è capace, l'assuefazione al modello del fast -e non solo per il food-, “raggiungimento del risultato più veloce, piuttosto che del migliore” (parafrasando una battuta del film).
Nonostante questo sottotesto, il film si costruisce come una serie di gag dalle tempistiche marcatamente ironiche, incentrate sul personaggio disadattato del protagonista, circondato da bravi attori -in particolare l'attrice di teatro Liz Fisher. Il regista stesso afferma infatti di aver concentrato il proprio impegno nella costruzione dei dialoghi e nel lavoro sulla recitazione, a sfavore però -anche a causa del ridottissimo budget – della resa tecnica del digitale. La regia statica, i piani fissi ed una fotografia luminosissima negli esterni e buia (non contrastata, ma buia) negli interni, pongono qualche ragionevole dubbio: scelte stilistiche o inesperienza?
Seppure la struttura della sceneggiatura non nasconde una serie di semplicistici passaggi obbligati, la morale profonda non finisce col limitarsi ad un prevedibile “se vuoi puoi”, ma si colora di un'ingenua e fresca fiducia nel cambiamento di cui, francamente, abbiamo proprio bisogno. Non dimentichiamo poi, prima di prendere troppo alla leggera questo film, che l'ironia funziona dicendo il contrario di quello che si pensa. Una scena su tutte: il protagonista legge ad una ragazza una delle sue poesie -una serie di luoghi comuni-, ed alla reazione interdetta di lei si cura di farle/ci notare, con la stessa aria inespressiva di sempre: ”so che l'ironia potrebbe non cogliersi…”.
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