Venezia 81 – Anywhere Anytime. Intervista al regista Milad Tangshir

“Il ritmo della povertà non è un movimento astratto, è un processo che avviene in uno spazio ben preciso, che è quello metropolitano”. La nostra intervista al regista del film italiano della SiC

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Raggiungiamo Milad Tangshir in un momento di limbo tra l’avventura veneziana del suo Anywhere Anytime, che si è aggiudicato il premio Luciano Sovena come Miglior Produzione Indipendente alla Settimana della Critica della Mostra del Cinema appena conclusa, e il prossimo appuntamento del film al Toronto International Film Festival. D’altronde, di “sospensione temporale” parla in qualche modo anche il suo lungo d’esordio, che tiene insieme una dimensione fortemente tangibile – pochissimi dialoghi, a guidare la narrazione sono i corpi e le azioni – con la percezione di una dimensione invece più astratta, vagheggiante, una specie di continua transizione come nell’immagine ritornante della lunghissima passerella di Parco Colletta, a Torino.

Ecco, proprio a questo proposito, in una delle sequenze più belle, quella del giro in bicicletta notturno del protagonista con la ragazza, un breve attimo di serenità prima che tutto precipiti, tu utilizzi uno dei brani più straordinari di Marc Ribot, Aurora en Pekin. Mi sembra come se il commento musicale sottolinei per tutto il film l’alternanza degli spazi in questo lunghissimo attraversamento urbano che compiamo insieme al protagonista

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Milad Tangshir: per me la musica era un aspetto fondamentale, gran parte di questi brani era già segnalato in sceneggiatura esattamente sulla sequenza per cui poi è stato utilizzato. Si tratta di una playlist compilata nell’arco del 2018/19, è stato lo spazio sonoro dentro cui ho scritto il film, e su cui ho modellato la sua identità. La mia idea era di utilizzare questo jazz africano di fine anni ’60, anni ’70, maggiormente di Senegal o Etiopia, con qualche eccezione tipo appunto il brano di Ribot, che sono da un lato sonorità familiari all’orecchio occidentale, dall’altro però hanno questo forte colore e personalità africana che ci riportano alle origini del protagonista, e mischiarlo con le immagini delle strade di Torino, le strade italiane, creare un senso di alienazione, togliere la familiarità che lo spettatore ha con queste strade, e con le storie degli immigrati, volevo che la musica fosse l’unica padrona del racconto insieme alla voce di Issa.

In questo costante spaesamento tu eviti del tutto la Torino turistica, quella “da cartolina”, fino a spedire poi il film proprio da un’altra parte nel finale, su quella spiaggia che all’inizio sembra un deserto…

Cercavo un senso di anonimato, quella del film può essere qualsiasi città, anche in Belgio o in Francia, per dire, perché alla fine è una storia che avviene appunto anywhere anytime, e poi ero consapevole che Torino è spesso filmata nelle sue parti barocche del centro, ma invece nella vita che viviamo tutti, me compreso, si respira un’altra città, altre zone, ugualmente intense, ugualmente belle. Mi riallaccio un po’ al concetto del wandering, del “vagare” apparentemente senza meta precisa, qualcosa che mi porto dietro magari anche dal mio amore per la “trilogia della morte” di Gus Van Sant, l’importanza di camminare con il personaggio. Non si tratta solo di un attraversamento fisico ma temporale, all’interno del tempo interiore del protagonista. Nei sei anni a cui ho lavorato a questo film ho vagato in bici per Torino e tutte le location le conoscevo già bene, le avevo esplorate nelle diverse stagioni, e in sceneggiatura avevo già in mente i movimenti di macchina che avrei fatto in quelle precise location. Il ritmo della perdita, il ritmo della povertà non è un movimento astratto, è un processo che avviene in uno spazio ben preciso, che è quello metropolitano, la città è il teatro di questo ritmo della perdita.

Questa perdita riguarda anche l’identità, Issa assume l’identità di Mario per lavorare come rider e si immerge nell’identità dell’amico “che ce l’ha fatta” anche attraverso le foto che trova sullo smartphone, vive una vita che non è la sua, perde la propria identità e poi pian piano la vede svanire…

“Un rider nero è un rider nero”, come si dice nel film. I lavori della cosiddetta gig economy sono caratterizzati proprio dall’assenza di individualizzazione, devi giusto pedalare e non hai bisogno nemmeno di conoscere la lingua, usi l’account degli amici se non sei in regola… nessuno ti guarda in faccia durante le tue interazioni quotidiane, è un lavoro privo di identità. Prima di questo film ho girato un corto in realtà virtuale nel carcere di Torino, VR Free, e posso assicurarti come anche nelle carceri ci siano molti più scambi di identità di quanto uno si possa immaginare, può sembrare assurdo ma sono pratiche che esistono. Tutto il film è immerso nell’asfalto, non vedi mai il cielo, tranne appunto nel finale dove però aleggia il fardello del passato che Issa è condannato a portare con sé, sono le zone di ombra e di luce che fanno di ognuno di noi un essere umano.

Anywhere Anytime non segue però il canone del film sociale, d’impegno civile, ma come nel neorealismo (Ladri di Biciclette, l’abbiamo scritto tutti, è uno dei riferimenti-chiave dell’opera) lascia ogni aspetto informativo alla fotografia di un momento

Questa cosa per me è vera sin dai tempi del mio corto Displaced, sull’arrivo degli immigrati sulla rotta balcanica: io vorrei fare cinema, non reportage di denuncia. E Anywhere Anytime non è un film strettamente sul mondo dei rider, d’altronde a Issa rubano subito la bicicletta, il fulcro è la sopravvivenza. Per me, da straniero, è fondamentale non cadere nella trappola del pietismo, “povero immigrato/cattivo immigrato”, o dell’estetica di un certo cinema d’autore che si occupa degli “ultimi”. Ho discusso molto per poter girare il film nella maniera in cui è girato, per me è importante che questo stile fluido dia dignità anche alla storia e a questo ragazzo. In ogni cosa che faccio per me è importante che venga segnata la distanza tra il punto di vista dell’opera e quello che accade nella vicenda, forse è un discorso da documentarista, ma seppure il film costruisca una grande intimità con il personaggio, bisogna comunque mantenere una sorta di distanza, di privacy, il respiro dell’opera sul soggetto non deve essere invisibile.

Anche perché la tua mdp non si stacca mai da lui, sin dall’inizio in cui Issa si nasconde nel furgone e non vediamo cosa accade fuori nel mercato con l’arrivo delle guardie, non c’è mai un punto di vista esterno, come anche nella sequenza dell’incidente che scopriamo solo quando Issa si volta indietro durante la sua fuga…

Volevo che fosse un film immersivo, soffocante, lo spettatore non deve poter respirare, deve percepire che quando uno vive in una situazione così vulnerabile basta un solo fine settimana perché i pezzi del domino si sfaldino in mille direzioni, e un solo weekend diventi in incubo infinito. Per questo ho messo anche i piani sequenza, come a dire che “nel tempo in cui sei stato con noi, la vita di un uomo può cambiare in maniera così drastica”.

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