Venezia 81 – Marco. Intervista esclusiva a Aitor Arregi e Jon Garaño

I registi hanno presentato il loro film nella sezione Orizzonti di Venezia81, raccontando lo scandalo che ha travolto un uomo che per anni si è finto un ex deportato. Ecco la nostra intervista

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A Venezia abbiamo incontrato Aitor Arregi e Jon Garaño, registi spagnoli che hanno presentato nella sezione Orizzonti il loro ultimo lungometraggio Marco. Protagonista della pellicola è Enric Marco, portavoce dell’Amical de Mauthausen, un’associazione spagnola delle vittime dell’Olocausto. Dopo aver raccontato per decenni di essere stato deportato in un campo di concentramento durante la Seconda guerra mondiale, nel 2005 l’intero paese scopre che non era altro che una grande menzogna, un’identità fittizia creata per attirare le attenzioni dell’opinione pubblica su di sé.

Quali sono le vostre sensazioni qui alla Mostra e com’è portare la vostra storia in un posto così importante?

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Jon Garaño: Per noi è stata una grande notizia scoprire di essere stati selezionati qua a Venezia, come un regalo. È uno dei festival più importanti al mondo, il più antico. Siamo felici che qui abbia inizio il cammino del nostro film. Siamo nervosi, ma anche molto motivati. Per esempio vogliamo credere che da qui, un posto pieno di gente, possa nascere qualcosa per il futuro.

Il film affronta il tema della memoria storica degli orrori dei campi di concentramento, in un paese che ha vissuto sotto dittatura anche dopo la fine della guerra. Che ruolo ha il cinema nel costruire a posteriori questa memoria storica?

Aitor Arregi: Credo che il cinema abbia un ruolo fondamentale nel comunicare storie in generale. Serve però anche a guardare indietro al passato, soprattutto in questo caso. Molta gente in Spagna non conosce la storia dei deportati spagnoli, che furono un caso molto particolare. Mentre negli altri paesi, con la fine della guerra e l’apertura dei campi di concentramento, i prigionieri sono potuti tornare a casa, accolti quasi come eroi, in Spagna Franco gli ha chiuso le porte e hanno dovuto vivere in Francia. Il nostro personaggio, Marco, nonostante stia mentendo e quindi compiendo un atto estremamente grave, ha anche fatto un lavoro molto importante in tal senso. Teneva più di 200 conferenze all’anno, portando all’attenzione di tutti queste circostanze. Raccontava però la storia come testimone, in prima persona, rubando quindi l’identità di un vero deportato. Queste storie ci servono perché in un momento del genere, in cui si parla di verità e post verità, la gente non deve scambiare le cose. La verità è molto importante e il film parla anche di questo. Marco è un artefatto, finzione, ma quello che sta alla sua base è la realtà ed è importante.

Marco decostruisce il proprio protagonista esplorando il rapporto tra la verità e la falsità di ciò che testimonia. Voi lo avete fatto con un linguaggio cinematografico in cui si mescolano le immagini che avete creato voi ed il repertorio, creando quasi ambiguità. Che lavoro avete fatto in tal senso?

AA: Abbiamo trascorso 18 anni con questa storia. Prima doveva essere un documentario, poi è diventato un ibrido, alla fine abbiamo girato un film totalmente di finzione. Le immagini d’archivio però ci attraevano, sentivamo fosse naturale inserirle. In questa storia è quasi più importante il modo in cui è raccontata, piuttosto che chi la racconta. Se mostri la stessa scena con un linguaggio cinematografico tradizionale oppure lo fai creando una finta immagine televisiva, la percezione dello spettatore cambia. Era naturale raccontare con quest’ambiguità una storia simile. In certi casi abbiamo mescolato le due cose: il campo è d’archivio, mentre il controcampo lo abbiamo inserito noi. A volte abbiamo esplicitato l’artificio, altre invece abbiamo fatto in modo che i due livelli diventassero indistinguibili.

JG: Quando abbiamo iniziato ci interessava raccontare come aveva reagito Enric Marco quando è scoppiato lo scandalo. Io a 84 anni mi sarei chiuso in casa, mentre lui ha fatto il contrario, apparendo su tutti i mezzi di comunicazione per raccontare la sua nuova verità: giornali, televisioni, radio. Volevamo capire cosa ci fosse dietro, perché avesse iniziato a mentire. La risposta è che ha iniziato perché aveva una vita grigia, triste. Ad un certo punto ha scoperto di avere un superpotere, ovvero l’oratoria, la capacità di emozionare le persone attraverso le sue parole. E quando queste bugie, che sono diventate sempre più grandi, hanno attirato l’attenzione della gente e la loro ammirazione, si è sentito amato. Quindi lui ha creato un nuovo Enric Marco, da cui non vuole staccarsi neanche dopo che si è scoperta la verità. Noi volevamo raccontare soprattutto questo, creando però un nuovo Enric Marco, il nostro, che è un ulteriore artificio. Abbiamo quindi messo in relazione il materiale reale e quello che abbiamo girato noi per mettere l’Enric Marco che abbiamo creato noi in contatto con gli altri Enric Marco.

Ma c’è stato un momento in cui Enric Marco ha saputo che stavate lavorando su di lui?

AA: Sì, noi l’abbiamo conosciuto nel 2006, perché appunto volevamo fare un documentario. Poi però è uscito un altro film in cui lui veniva intervistato. Non era stato chiaro, ci aveva detto che avrebbe fatto il film con noi, finché non abbiamo scoperto che aveva girato con un altro regista. Un paio d’anni dopo ci ha cercato per sapere se volessimo raccontare anche noi la sua storia, perché l’altro film non gli era piaciuto. Abbiamo fatto quindi un’intervista durata diversi giorni. Lui sapeva quindi che ad un certo punto avremmo realizzato qualcosa con lui. Negli ultimi anni, quando il progetto era diventato un film di finzione, lo abbiamo visto sempre più di rado, finché non è morto nel 2022 a 101 anni, anche se negli ultimi anni aveva già diverse lacune. Sicuramente sarebbe stato strano vedere la propria vita trasposta in un film, non capita a tutti.

JG: Non sapremo mai se ci avrebbe criticato. Quando Javier Cercas ha pubblicato il suo libro (L’impostore, 2014, ndr), lui interviene durante la presentazione, interrompendola. Magari oggi sarebbe apparso qui a Venezia per criticarci. O magari gli sarebbe piaciuto, ma sicuramente sarebbe spuntato.

A proposito di Javier Cercas, avete avuto un confronto con lui durante la lavorazione?

JG: Durante questi 18 anni, quando stavamo pensando all’ibrido tra documentario e finzione, Enric Marco ci aveva raccontato che stava incontrando Cercas, il quale aveva iniziato a documentarsi per un eventuale libro. Noi abbiamo pensato che sarebbe potuto essere interessante includere il processo di scrittura del libro nel film. Quando Marco ha organizzato un incontro tra noi e Cercas, siamo andati a Barcellona e lui non sapeva nulla. Marco non l’aveva informato. Comunque ci ha detto che preferiva non partecipare per concentrarsi sul suo libro. Ne L’impostore comunque è raccontato il nostro incontro. Ora noi l’abbiamo contattato per dirgli che sarebbe stato nel film in una sequenza. In molti credono che la nostra sia una trasposizione del suo romanzo, ma non è così. L’impostore racconta l’intera vita di Marco, non solo l’episodio che raccontiamo noi. E noi raccontiamo cose che non ci sono nel libro.

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