Venezia 81 preview – L’enciclopedia di D’Anolfi e Parenti: Bestiari, Erbari, Lapidari

Il duo formato da Massimo D’Anolfi e Martina Parenti farà ritorno a Venezia con Bestiari, Erbari, Lapidari, un documentario sugli animali, le piante e le pietre. Fuori concorso.

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BANDO BORSE DI STUDIO IN CRITICA, SCENEGGIATURA, FILMMAKING

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A Venezia 77 avevamo visto il loro Guerra e Pace (2020) nella sezione Orizzonti; Venezia 81 li riaccoglie Fuori Concorso con Bestiari, Erbari, Lapidari. La coppia formata da Massimo D’Anolfi e Martina Parenti torna alla laguna con un documentario “enciclopedia” dalla struttura tripartita dedicata agli animali, le piante e le pietre. Duecentocinque minuti di drammaturgia mutaforme che sembrerebbe riecheggiare l’ossatura di Guerra e Pace – chirurgico nel ricostruire archivi che riportassero conflitti – e la pulsione biologica di Spira Mirabilis (2016), sottilissima tesi sull’immortalità.

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Ma il cinema di D’Anolfi e Parenti non vuole definirsi nella facile divulgazione di un contributo scientifico e un’ortodossa messinscena, piuttosto dialoga con una certa idea di reale cui ambisce, come riconoscono gli stessi autori:

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«Crediamo che il nostro compito sia quello di “re-inventare” una visione e una rappresentazione del reale e cercare di instaurare relazioni vitali fra gli elementi che compongono le inquadrature dell’opera. Così facendo, non cerchiamo il “reale”, ma la rappresentatività del reale e l’occasione per raccogliere i racconti, le storie, le riflessioni su noi umani».

Proprio nel solco di un reale da (ri)produrre, ogni atto in Bestiari, Erbari, Lapidari omaggia un preciso genere documentaristico: Bestiari è un found-footage su come e perché il cinema abbia ossessivamente guardato gli animali; Erbari un documentario poetico d’osservazione calato dentro l’Orto Botanico di Padova; Lapidari, invece, un film industriale sulla trasformazione della pietra in memoria collettiva.

Bestiari1.

Bestiari1.

Memoria e conservazione modellano l’opera dei cineasti rinnovandone gli impulsi e i sentori, a cominciare da quel mal d’archivio che tiene uniti i tempi: tradizionale nella sua smania di impugnare il passato, ultramoderno nel contenere le minacce di una finitezza. Resiste agli scongiuri di un oblio mediale, come resistono i lavori di D’Anolfi e Parenti, fini costruttori di immagini-materia, tattili dunque plasmabili, segni quindi testimonianze; lo dimostrano il restauro dei rulli di pellicola sull’invasione libica in Guerra e Pace e gli archivi familiari di Spira Mirabilis, che rendono giustizia a un immaginario di memorie, collettivo o privato che sia, tra l’infanzia del cinema e la sua lunga vita negli archivi.

Ma accanto a questa coscienza delle immagini immortali si staglia una fede cieca nel documentarismo di osservazione pensato da Bill Nichols come estetica della neutralità e sguardo sul qui e ora. I Promessi sposi (2007) e Il castello (2011) trasudano tutta l’estraneità di una macchina da presa che non condanna né commisera, ma astrae.

Allora, ecco, che il cinema documentario pensato da D’Anolfi e Parenti è esso stesso materia, ma una materia oscura che forse di neutrale ha ben poco; finemente matura idee ed elegge argomenti nella «pretesa di restituire l’invisibile, di far avanzare il racconto attraverso il fuoricampo», come quando guarda all’assoluta sorveglianza di un aeroporto-fortezza o discute sull’etica di una fotografia di guerra.

Forse Bestiari, Erbari e Lapidari prenderà corpo da qui, dall’astrazione dei luoghi o dall’armonia delle immagini in un coro unico di protagonisti, attraverso multiformi voci e suoni, che racconti di noi e preservi il nostro sapere. Di certo sarà ancora «un cinema per spettatori che abbiano voglia di fare un viaggio», come si augurava qualche anno fa la coppia di cineasti.

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