#Venezia81 – Forma e sostanza

Forse è arrivato il momento che la Biennale e la Mostra si pongano l’obiettivo di un rapporto più attivo con il contesto. Riscoprire il contatto con il mondo. Ma magari è quanto ci dicono anche i film

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In questa Venezia 81, un po’ a margine della Mostra, sono emersi un paio di spunti che sembrano secondari, accessori, eppure possono essere più significativi di tanti discorsi sul merito, riguardo i film visti, la loro qualità, le indicazioni sullo stato del cinema. Due episodi senza alcuna connessione tra loro e che, però, offrono l’occasione per una serie di riflessioni destinate a intrecciarsi, in qualche modo.

Il primo riguarda un’affermazione di Alberto Barbera durante un’intervista al Gazzettino, in cui ha tracciato un bilancio di quest’ultima edizione: “vedo avvicinarsi un limite alla possibilità di crescere ancora”. Un campanello dell’allarme, con cui il direttore artistico indica tre problematiche. “L’inesistenza di altri spazi a disposizione per far crescere le strutture di accoglienza della Mostra”, il che comporta, ad esempio, una difficoltà di espansione del mercato. La ridotta ricettività del Lido, che offre “un numero limitatissimo di camere e hotel a disposizione…, ma anche di appartamenti e bed & breakfast”. E, infine, “un salto dei prezzi assolutamente ingiustificabile” relativo alle strutture ricettive e ai servizi, a fronte di una qualità dell’offerta che “non è assolutamente adeguata ai prezzi”.  Si tratta di problematiche interamente legate alla particolarità del contesto del Lido. Da sempre abbiamo avvertito la Mostra del Cinema di Venezia come una vera e propria bolla. Molto più degli altri festival, sebbene sia generalizzata la tendenza a isolare il “mondo cinema” dalla realtà, a considerarlo come uno spazio chiuso, una specie di rifugio in cui tenersi a debita distanza dalle cose. Ora la bolla sembrerebbe essere arrivata a saturazione, soffocando sempre più le opportunità di sviluppo della Mostra. Siamo consapevoli delle particolarità e difficoltà di una città come Venezia, che rende oggettivamente difficili le possibilità di espansione degli eventi del festival in un tessuto urbano che costituisce un unicum. Alcuni timidi tentativi sono stati fatti nel corso del tempo, ma si è trattato di iniziative sporadiche. Non esiste una risposta semplice alle questioni indicate da Barbera. Di certo nuovi problemi impongono nuove soluzioni. Ed è arrivato il momento che la Biennale e la Mostra del Cinema si pongano seriamente l’obiettivo di un ripensamento strutturale e di un rapporto più attivo con la città e il Lido. Un rapporto nicoliniano, verrebbe da dire, capace di saldare l’offerta culturale alla ridefinizione delle strategie di sviluppo del contesto. È il momento, in altre parole, che il festival abbandoni finalmente la sua aura museale, il suo distacco da vetrina d’arte, per creare un dialogo attivo con gli spazi in cui agisce, diventare un effettivo elemento di trasformazione e non una semplice occasione speculativa, da spremere in termini economici. È un problema di Venezia, ma in generale di tutti gli eventi culturali e dei più grandi in particolare: ripensare un ruolo, la propria presenza nel mondo, le strategie di intervento e sviluppo. Ed è un discorso che va al di là di ciò che si mostra, dei film, di dar conto del “meglio”, dei grandi nomi, delle novità o delle trasformazioni dei linguaggi. Cosa che, va detto, la direzione di Alberto Barbera ha provato a fare negli ultimi anni, ad esempio con l’apertura alla realtà virtuale, alle piattaforme, alla serialità. In questa Venezia 81, sono state addirittura quattro le serie Tv proiettate integralmente: Disclaimer di Alfonso Cuarón, Families Like Ours di Thomas Vintenberg, Los años nuevos di Rodrigo Sorogoyen, M. Il figlio del secolo di Joe Wright.

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Proprio quest’aspetto apre la seconda riflessione. Tra le tante conversazioni avute durante questa Mostra di Venezia, una in particolare è sembrata decisiva. Un autore per noi fondamentale, parlando delle tendenze del cinema di oggi, si chiedeva quale fosse il senso di tutto questo affanno verso le nuove forme. Da parte dei critici e dei programmatori, in primo luogo, ma anche da parte di molti registi, ansiosi di trovare modalità di espressione inedite o di dettare una linea delle trasformazioni contemporanee. Un affanno che si risolve, la stragrande maggioranza delle volte, nella ricerca di un sensazionalismo sterile, di un virtuosistico gioco di scomposizione e ricombinazione delle strutture narrative o, peggio che mai, in un accordo del tutto superficiale ai temi e alle mode del momento. “Non esistono nuove forme”, continuava a ripetere quel regista. Semmai modi personali di pensare e di esprimersi attraverso le immagini. Il che non vuol dire porsi in una prospettiva astorica o reazionaria né rinunciare a un’originalità di sguardo. Significa distinguere una questione esclusivamente stilistica o linguistica dall’affermazione di una responsabilità più profonda. Quella di far scaturire le immagini dall’intima necessità di un discorso. La forma è contenuto, si può anche continuare a ripetere il mantra. È ovvio. Purché non scada nel puro e semplice formalismo, in un accanimento estetico incapace di rispondere a una visione profonda, senza alcun legame con l’urgenza del movimento interiore della struttura o con le tensioni di un momento storico. Altrimenti resta solo l’ornamento. E ritorniamo alle parole di Adolf Loos, “nessuno ornamento può più essere inventato oggi da chi vive al nostro livello di civiltà”, e a quelle riflessioni che già avevamo provato a chiarire nell’ultimo numero di Sentieriselvaggi21st. Certo, il cinema non è architettura. Non deve rispondere alla funzione di creare uno spazio abitabile. Anzi, per alcuni, più è scomodo, disturbante, meglio è. Bontà loro, noi non siamo certo alla ricerca di consolazioni o equilibri prestabiliti. Ma continuiamo a essere convinti il cinema debba distinguersi dal flusso ininterrotto delle cose e delle immagini che ci circondano. Obbligare per un istante a fermarsi, alla sosta di un pensiero, di un sentimento e di un’emozione, a interrogarsi sul senso di ciò che viviamo.

Prima la vita”, continua a ripetere Luigi Comencini, nel magnifico omaggio della figlia Francesca, Il tempo che ci vuole, probabilmente il più bel film italiano di questa Venezia 81, insieme a Bestiari, erbari, lapidari di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti. Da questo punto di vista non ci sembra strano che ad aggiudicarsi il Leone d’oro sia stato The Room Next Door, di Pedro Almodóvar, un film che si concentra sulla soglia, proprio su quella linea di passaggio tra la vita e la morte. Nonostante non vi sia nessuna “nuova forma”, nonostante la sua apparente freddezza, che in realtà indica un rifiuto, persino punitivo, di ogni facile sentimentalismo. E sarà sempre per questo motivo che il “sensazionale” The Brutalist di Brady Corbet, da molti salutato come un ritorno al grande cinema, risulti tutto sommato piccolo, angusto. Un film che cerca di costruire a modo suo lo spazio sacro, ma in cui la luce penetra solo attraverso un trucco. a cui manca l’ossessione e il desiderio della creazione, che rimane ingabbiato nella fascinazione della sua struttura, finendosi poi per rinchiudere

All’ultima Cannes, avevamo sottolineato una tendenza presente in molti film, un’attenzione rinnovata alle storie, come un’affermazione della necessità di un ritorno all’umano, di una nuova empatia. Questa necessità viene ribadita da molti film di questa Venezia 81, da Phantosmia di Lav Diaz al nuovo Horizon. Capitolo 2 di Kevin Costner, sempre più straordinario e struggente. Seppur in una programmazione che è apparsa meno sistematica, a tratti quasi casuale. Lontana dal disegnare le traiettorie di un discorso coerente. Certo, alcune indicazioni importanti sono emerse. Come il buono stato di salute del cinema italiano, tra i titoli già citati, quelli di Francesca Comencini e di D’Anolfi e Parenti, e i film di Gianni Amelio, Maura Delpero, Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, oppure, altrove, di Valerio Mastandrea, Cassigoli e Kauffman, Ciro De Caro

Così come non sono mancate le visioni esaltanti, fisiologiche in un grande festival come Venezia. Non tanto in concorso, in cui probabilmente l’impennata più alta è Joker: folie à deux di Todd Phillips, film bistrattato da molti, a riprova di come le formule prestabilite siano più rassicuranti degli slanci inquieti dello sguardo, Quanto nelle altre sezioni, da The New Year that Never Came di Bogdan Mureşanu agli squilibri di Lelouch, fino a Se posso permettermi Capitolo II di Marco Bellocchio e all’irresistibile Broken Rage di Kitano, due magnifici “giochi” in cui il divertimento è la risposta sovversiva a un bisogno morale. Si tratta di film densi, palpitanti, in cui riconosci un cuore che pulsa sotto la superficie delle immagini.

Forse, è proprio questa la linea di connessione, su cui riannodare i fili dei due spunti che abbiamo provato ad affrontare. C’è una fede che, crediamo, dovrebbe animare tutti coloro che hanno a che fare con questa strana cosa che è il cinema: chi crea immagini, chi riflette, chi scrive, chi mostra. Ed è la fede in qualcosa di vivo, in movimento, libero dall’asfissia dei discorsi d’accademia o dalle teorie asettiche, dalle distanze della bolla. Qualcosa che sia capace di aprirsi al mondo e di intervenire. A meno che non voglia smarrirsi nel deserto e scomparire.

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