Venezia81 – Intervista a Andres Veiel per Riefenstahl

“L’archivio non mente”. Intervista al regista di Riefenstahl, documentario che vuole smascherare la viva eredità della regista del nazismo. Fuori concorso a Venezia 81

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Alla Mostra del Cinema di Venezia, nel 1935, Leni Riefenstahl viene premiata da Mussolini con una medaglia d’oro per Il trionfo della volontà. Fino alla caduta del Terzo Reich, Riefenstahl rimarrà la narratrice del regime. Dopo la fine della guerra e dopo un silenzio durato più di un decennio, Riefenstahl avvia una profonda opera di riscrittura della sua storia personale, depurandola dei passaggi più controversi e apparendo sempre di più in pubblico come la martire del popolo tedesco. A novant’anni di distanza, Andres Veiel con il suo documentario Riefenstahl, presentato Fuori Concorso a Venezia 81, affronta queste menzogne. Un viaggio nell’archivio alla ricerca della verità storica, ma anche dell’eredità viva ed evidente di Leni Riefenstahl nella nostra contemporaneità.

Cosa significa essere qui con Riefenstahl 90 anni dopo la presentazione a Venezia de Il trionfo della volontà?

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È un ritorno ambiguo. Vinse il Premio Mussolini e molti elementi li si ritrova nel presente: il tema delle fake news, per esempio, o l’approccio estetico del vittorioso e del superiore. C’è Trump, in qualche modo, quando dice che gli immigrati rovinano il sangue puro degli americani. La continuità dell’ideologia, dell’estetica di Riefenstahl mi dice che il documentario Riefenstahl racconta una storia riguardante il futuro. Venezia è il posto migliore per questo, visto che ci sono dei precedenti e avete un presidente, Meloni, che sminuisce il passato del suo partito e le sue radici; avete un Ministro che dice che l’umiliazione deve essere parte dell’educazione. Molti elementi di Riefenstahl sono in Italia, ma anche in Germania, con il successo di AfD, in USA con Trump, in Europa con Orban e su un altro livello in Russia con Putin. L’eredità di Riefenstahl è così presente che penso che abbiamo fatto un film sul futuro.

Leni Riefenstahl influenza ancora il modo di riprendere lo sport?

Penso che fosse veramente avanguardista per il tempo, per esempio il montaggio della scena dei tuffi in Olympia è ancora affascinante. Il problema, però, non è celebrare lo sport, ma ignorare il lato oscura della celebrazione dello sport, del superiore, ossia deprecare il debole, lo straniero, il malato. Bisogna vederlo nella connessione tra la celebrazione della bellezza e della superiorità, allora siamo alla soglia dell’ideologia fascista. Il culmine allora è la guerra di aggressione, nell’uccisione di massa dei cosiddetti “elementi sporchi”.

Il montaggio è durato 18 mesi. Come è cambiata la narrazione e il tuo rapporto con la figura di Leni Riefenstahl durante il processo?

La possibilità di guardare precisamente nella sua biografia, scoprendo quella che si potrebbe chiamare “la radice dell’ideologia fascista”, che non è iniziata nel 1933 quando ha incontrato Hitler. Basta pensare alla sua infanzia e alla sua esperienza con la violenza e l’educazione di suo padre, che per farle imparare a nuotare la lancia in acqua facendole rischiare l’annegamento. Quindi l’identificazione dell’imposizione a essere forti, con l’idea che bisogna evitare in tutti i modi di essere deboli per non essere ignorata da suo padre e per non sentirsi una codarda. Per me è interessante non solo incolparla di essere una nazista, non è interessante mettere su un processo. C’è un background. Pensiamo ai combattenti del primo dopoguerra: non c’è più una guerra, allora si combatte la montagna (il riferimento è ai film d’avventura da lei diretti e interpretati, di grande successo in Germania, ndr), la natura, come a volersi dimostrare superiori. Udet, il pilota, lo dice chiaramente quando esprime il suo disprezzo per chi è stato piegato dall’esperienza della guerra, mentre persone come lui si ritenevano rafforzati da essa. L’ideologia fascista è stata la preparazione all’incontro sotto l’emblema di Hitler.

Il modo in cui ha provato a ripulire la sua immagine dopo la Guerra è inedito. Ha registrato tutte le sue chiamate, come se ci fosse un piano per raccontare la sua storia differentemente…

Era ossessionata dal ri-raccontare la sua storia. Infatti, tutte quelle registrazioni raccontano la storia della Germania del Dopoguerra che voleva Leni Riefenstahl come un’eroina, reprimendo la Memoria della Guerra e del regime nazista. Lei racconta di aver sofferto molto e di aver passato tre anni in prigione, che è una menzogna. Lo è stato per un mese, è stata interrogata dalle truppe, ma in qualche modo loro la amavano! Dopo una settimana, veniva invitata a prendere il tè nelle loro stanze private, come fosse un hotel. Nessuno si è opposto dicendo che era una bugia e questo ci dice come vengono create le fake news. Lei si pone come un martire, celebrata come qualcuno che ha sofferto per tutti. Solamente qualche anno fa è cominciata una rivalutazione critica, prima era solamente una vecchia signora rispettata. Leni stessa si poneva come un’influencer di oggi: si mostrava a 80 anni che faceva immersioni, pubblicando dei libri sul mondo sottomarino e facendo battute sul fatto che non fotografava pesci marroni e che quindi non c’erano riferimenti al mondo nazista. Era molto furba e affascinante. Questa era la mia sfida: c’erano tantissime trappole. Ho dovuto sviluppare moltissimo il dubbio. A un certo punto ho pensato che alcuni passaggi fossero stati lasciati appositamente per me o chi come me avrebbe affrontato la sua figura. È come una storia di detective. C’era per esempio un riferimento a un’intervista del Daily Express del 1934, ma l’intervista non si trovava. Lì dichiarava che già nel 1931 aveva comprato il Mein Kampf di Hitler ed era diventata una fervente nazista. Uguale per le foto con Hitler e Goebbels, con i quali diceva di non avere un rapporto personale, ma dalle foto che abbiamo recuperato da un archivio americano era chiaro che ci fosse un legame stretto. Ci sono molti livelli di menzogne.

Hai anche realizzato un documentario su Joseph Beuys, quali sono le differenze tra i due?

Quando ho realizzato quel documentario, mi sono sentito per tutto il tempo ispirato dalla sua figura. Era geniale e ha sempre cercato di confrontarsi con il suo passato, con le ombre del suo passato e con le sue colpe, tutto nel reame dell’arte. Certamente non era perfetto e ha fallito su alcuni piani, ma cerca costantemente di trasformare e affrontare il trauma della II Guerra Mondiale ed è qualcosa che manca nella biografia di Riefenstahl, che ha continuamente mentito, rimanendo immersa nelle sue leggende. È disturbante e mi ha affaticato in un certo senso, ho dovuto cercare le energie altrove, nel significato che ha per l’oggi. C’è una necessità di ridurre la realtà al bianco e nero, al buono e cattivo. Questa semplificazione la si può trovare in Riefenstahl. Quindi ho dovuto fare una deviazione per trovare la mia personale attrazione nella sua biografia ed è stato un viaggio molto lungo.

Dostoevskij disse che la bellezza salverà il mondo. Ma dal documentario sembra, invece, che l’archivio lo salverà. Come lo si può approcciare per salvarsi da riscritture della storia del genere?

Credo che l’archivio possa creare un’illuminazione andando oltre la semplicità di queste leggende e di queste menzogne. L’archivio non mente, prova qualcosa che è qualcosa che è oltre le menzogne. È un tesoro che ha bisogno di tempo per essere capito, bisogna esplorarli, creare collegamenti con altri archivi, ma a mano a mano si forma un caleidoscopio. Se le persone sono curiose e interessate non solo a riconfermare i propri cliché, allora diventa un bonus. Bisogna, però, essere interessati all’ambiguità, all’ambivalenza, ma penso che questo sia un tempo che odia l’ambiguità. Le persone vogliono avere un messaggio chiaro. Per persone come me è una sfida inseguire questa illuminazione, riconoscere la complessità.

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