Vittoria, di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman

Un cinema che sembra muoversi per incontri casuali e che si apre in una progressione continua. Denso e vitale anche oltre le logiche della ricostruzione. VENEZIA81. Orizzonti extra

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Come già fatto in Californie, dove seguivano un personaggio secondario di Butterfly, la piccola Jamila alle prese con il sogno di diventare pugile come Irma Testa, anche qui Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman ripartono da una traccia nascosta del film precedente. Protagonista di Vittoria, dunque, è Jasmine, la titolare del salone di bellezza “Californie” di Torre Annunziata. Una donna di quarant’anni, sposata con Rino e madre di tre figli. Una vita “piena”, ordinaria, ma tutto sommato soddisfacente. Però c’è qualcosa che agita Jasmine, un sogno ricorrente che la inquieta: il padre, morto da poco, le affida una bambina che le corre incontro e l’abbraccia. Non un incubo, ma un’immagine di serenità e di calore. Eppure cosa vuol dire quel sogno? Una figlia femmina dopo tre maschi? Prima è solo un pensiero, l’interpretazione di un segno, poi il desiderio si insinua sempre più nell’anima e nella testa. Jasmine non sente più ragioni: vuole una figlia, anche se non è intenzionata ad avere un’altra gravidanza. Per questo decide di affrontare l’iter dell’adozione internazionale, contro il parere dei familiari.

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Il cinema di Cassigoli e Kauffman sembra muoversi per incidenti, incontri casuali e si apre in una progressione continua. Ai margini di ogni storia, ci sono mille altre storie che vivono negli sguardi che incrociamo per caso, nei percorsi che per un attimo si intrecciano alle strade che stiamo percorrendo. Così come, d’altro canto, ogni storia si complica in rivoli, sottotrame, combinazione multiple. Il racconto prolifera e le vite da raccontare sono dei rizomi che si espandono sottoterra. È esattamente quel che accade in Vittoria, dove, dietro la vicenda principale, ci sono tante altre traiettorie, tutte direzioni potenziali di un percorso a parte: il padre di Jasmine morto per asbestosi per avere respirato polvere di amianto a Bagnoli, la causa contro l’azienda per il risarcimento e per l’affermazione di un (vano) principio di giustizia, Rino che vuole spostare a Capri il suo laboratorio artigianale e cerca di far quadrare i conti, il primogenito Vincenzo che vuole imparare a fare il parrucchiere e, dopo una crisi di panico, decide di trasferirsi a Milano. È chiaro che poi tutto ruota intorno al percorso di adozione intrapreso da Jasmine, alle tensioni familiari che ne seguono, ai dubbi, alle aspettative e alle paure. Ma la logica della struttura narrativa non vale a tenere a freno tutta questa vita che si muove intorno. Proprio come la messinscena della ricostruzione, la compostezza funzionale delle soluzioni formali (i dialoghi rigorosamente in campo contro campo) non bastano a contenere la realtà delle esperienze, la densità delle emozioni, dei conflitti e degli affetti che trovano sempre una loro via di ricomposizione.

Jasmine, Rino, i protagonisti non solo intrepretano la loro vicenda, la rimettono in scena, ma in qualche modo ne rivivono le implicazioni, sono costretti a riaffrontarne i nodi. Ed è questo a nutrire la sostanza di Vittoria, a garantire l’urgenza della sua materia. Che vive di silenzi dolorosi, momenti di spaesamento, di litigi, ma soprattutto di gesti d’affetto, abbracci, balli, giochi con la palla, caramelle e cioccolate regalate. Nel cinema matrilineare di Cassigoli e Kauffman, sempre incentrato su storie al femminile, accade poi che sia un uomo, un “padre”, reale o putativo, a ristabilire le priorità, a compiere i gesti risolutivi. Come già capitava con Lucio Zurlo in Butterfly e Californie, qui è Rino ad avere lo scatto decisivo, quello che compatta la nuova famiglia: basta cu ste scemità, “la bambina sta bene”. Quello splendido abbraccio nel finale riconcilia tutto e tutti, anche i nostri sguardi.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.8
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Il voto dei lettori
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