Cuckoo, di Tilman Singer

Opera seconda del regista tedesco, thriller in cerca di uno sfasamento percettivo che divida l’inquietudine dalla bizzarria, tra presenze ibride e loop temporali. Corvo d’Argento al BrusselsIFFF 42

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C’è un sentire particolare, che altera il tempo e la collocazione nello spazio in Cuckoo, opera seconda di Tilman Singer, vincitrice del Corvo d’Argento al Bruxelles International Fantastic Film Festival. È quel senso di smarrimento che assale immediatamente la protagonista Gretchen – Hunter Schafer, nota per Euphoria -, costretta a lasciarsi alle spalle la vita con la madre per ricominciare con padre, matrigna e sorellastra che sta iniziando a manifestare i primi sintomi di epilessia, il tutto nella cornice scentrata di un resort nelle Alpi tedesche. Un luogo di rigenerazione, fatto di spazi aperti e modi ossessivamente gentili del proprietario, ma in cui sembrano agire strane presenze interstiziali, accadimenti sempre sulla soglia che divide l’inquietudine dalla bizzarria.

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D’altra parte, la cifra che interessa a Singer è evidentemente quella dello spiazzamento, articolato attraverso la formula ibrida del thriller para-fantascientifico che diventa storia di fantasmi, in una via di mezzo fra il grottesco e l’orrore. Così, se le presenze che agitano il resort appaiono pittoresche, l’agire è comunque sentito e il ritmo è teso come nella migliore tradizione del genere. In mezzo ci sono piccoli sfasamenti temporali, dati tanto dai fulminei flashback sul trauma sepolto nel passato della ragazza, quanto nei loop creati dalle presenze, che definiscono la cifra ossessiva e ripetitiva del loro accanimento. Ma soprattutto c’è un rapporto alterato con la natura, forza onnipresente nell’ambiente isolato fra le montagne e da cui discende la verità sulle stesse figure misteriose, a metà fra il folklore nascosto e l’esperimento da laboratorio ordito con protervia e naturalmente sfuggito di mano. Il “Cuckoo” del titolo riecheggia in questo modo tanto il meccanismo di un orologio a molla che ripete “in loop” la sua carica, quanto la bizzarra figura di questi umani-uccello.

Singer sottolinea lo sfasamento percettivo attraverso una messinscena che ha il calore delle tinte anni Ottanta, con fondali caricati e volutamente posticci come la recitazione sempre molto enfatica di gran parte del cast e indovina alcune sequenze chiave – come l’ombra della presenza che si rivela nel gioco dei vedo/non vedo fra le luci del bosco, magistrale! Più altalenante appare la gestione dei drammi umani: se la cifra hard-boiled

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garantita dal poliziotto che sta cercando di fare luce sui misteri del posto appare alquanto fuori posto, e il character arc della protagonista si rivela fonte di numerose situazioni episodiche spesso non puntualmente collegate tra loro, la dedizione al ruolo di Hunter Schafer è magnetica e ricorda la AnnaLynne McCord di Excision, in un misto di fragilità e inquietudine, come se Gretchen stessa fosse una delle presenze interstiziali, vagamente lynchiane del contesto. Le fa eco il Konig di Dan Stevens, in cui si rivedono in filigrana i ruoli larger-than-life con Adam Wingard, che conferiscono al personaggio un’aggressività repressa e destinata a trovare la sua esplosione nel finale.

In questo modo, Cuckoo riesce tra i numerosi detour a mantenere vive curiosità e interesse fino alla fine: non sarà l’horror degli scaffali in fondo (come da geniale definizione di James Wan per il suo Malignant sui film che basano il loro maggior fascino sullo spiazzamento) ma di sicuro la conferma di un autore che vuole giocare con le convenzioni di genere in modo accattivante.

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