Laurent Cantet e i conflitti carsici del suo cinema

Il cineasta francese ha guardato con grande umanità dentro le crisi delle nostre culture mostrando i punti di frattura con il suo cinema concettuale e mai conciliante. Il nostro ricordo.

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Non sapevo della sua malattia e per questo la notizia della sua scomparsa mi ha colto impreparato aprendo a quelle sensazioni di sgomento e di vuoto improvviso che notizie del genere provocano perché senti che manca un po’ di terra sotto i piedi e un pezzo di quello che è stato il tuo mondo se ne va per sempre.
Lo avevamo conosciuto Laurent Cantet quando a Reggio Calabria è venuto a presentare Les sanguinaires il suo primo lavoro da regista e avevamo compreso che non era uno dei tanti, ma aveva in testa un’idea precisa di cinema trasversalmente politico, filtrato da quella centralità della crisi umana che diventa terreno di indagine obbligata per ogni artista. E Laurent Cantet lo è stato. Lo avevamo compreso come testata quando Leonardo Lardieri, Michele Moccia e Aldo Spiniello gli dedicarono un prezioso libro intervista Laurent Cantet – L’emploi du cinéma editato proprio da Sentieri Selvaggi.
Era stato Les sanguinaires del 1997, il suo primo lavoro importante in un progetto della francese Arté per 11 registi che guardavano al nascere del nuovo millennio. È la storia di un gruppo di amici che nei giorni cruciali del cambio di data si rifugia nell’arcipelago Corso per sfuggire al caos dei festeggiamenti.

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Una chiara e simbolica dichiarazione di intenti per il suo cinema a venire, per una insolita attenzione ai sentimenti, quegli stessi che avrebbero trovato posto nei suoi film successivi. Un frastagliato percorso sentimentale, amplificato da una realtà incombente, per un cinema quasi disadorno d’altro e in quel dissenso silenzioso che i suoi film hanno sempre sottolineato, a cominciare dal dirompente Risorse umane del 1999 che senza tentennamenti o ipocrisie indaga sul tema del lavoro come agorà di confronto tra generazioni all’affacciarsi del terzo millennio e delle radicali trasformazioni della società che investono le relazioni produttive creando conflitti carsici. La storia è quella di una famiglia, ma meglio di un padre e di un figlio al cospetto dell’ingresso nel gergo del lavoro del termine “risorse umane” che assume un significato che coincide con una riduzione forzata di lavoratori, in ossequio a quel capitalismo che vuole maggiori profitti riducendo i costi.
È da qui che forse prende deciso l’avvio di quel cinema politico, di cui si diceva, che sapeva ragionare con logica stringente e attenzione ai fenomeni sociali, su questioni spinose in un lavoro che Cantet ha sempre condotto in una direzione antispettacolare. Il cinema del regista francese, anzi, ha sempre despettacolarizzato nella sua messa in scena, i temi che ha attraversato. Il suo fare cinema aveva piuttosto la forma del saggio di studio, una indagine che assumeva i toni quasi documentari e la coltivazione dei sentimenti arricchiva l’analisi attenta dei fenomeni oggetto del suo lavoro.

Appartiene allo stesso tema del lavoro, filtrato dalla cronaca, A tempo pieno del 2001, che mette in scena nella forma più drammatica di solitudine irrimediabile la crisi nera e profonda che segue alla perdita del lavoro per un manager di successo. Come si diceva, il film, ispirato ad un reale fatto di cronaca, è il racconto senza scampo del personaggio che si lascia andare in una deriva di impegni immaginari per essere stato licenziato dalla sua azienda senza riuscire a trovare un equilibrio psicologico che lo rimetta in piedi dopo questo terremoto esistenziale. La vicenda avrà un esito inatteso fino alle conseguenze di un gesto estremo e tragico.
L’incompreso Verso il sud del 2005, un racconto che riguardava le donne che nelle isole dei Caraibi cercavano facili avventure per soddisfare i propri bisogni sessuali, lungi dal diventare un film dai tratti pruriginosi, diventa un pamphlet piuttosto acido, sebbene sui toni di un dramma consueto nel suo quieto scorrere, sulla società opulenta in quella sottolineatura che guarda allo sfruttamento perfino sessuale senza remore e senza ricompensa. Un film che già dal titolo sottolinea, nel lavoro accanito sui corpi che fa Cantet e su quel desiderio che domina le vite dei personaggi, senza didascalismi o strutture esplicitamente di parte, il conflitto tra i “nord” e i “sud” del mondo, trasformando la sessualità in tema politico quasi originario, sicuramente arcaico e profondamente legato all’idea di sfruttamento in una equa distanza tra carnefici e vittime. Ha ragione, in questo senso Federico Chiacchiari a rimandare questo cinema, in cui i rapporti sono dominati dalla loro stessa mostruosità, in un alveo fassbinderiano dal quale sembra quasi prendere le mosse.

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È quello di Cantet dunque un cinema che entra direttamente in quella fenditura creata dalla crisi, crisi di sistemi organici che erodono le relazioni, crisi di strutture consolidate come quelle del lavoro. Come quelle della scuola nel film, Palma d’Oro nel 2008 al Festival di Cannes, La classe – Entre les murs analisi assolutamente originale sul mondo multietnico con la scuola come laboratorio nel quale sperimentare il dialogo tra classi sociali e differenti appartenenze culturali. Un altro saggio cinematografico, un racconto che, tratto dall’esperienza didattica di François Bégaudeau che partecipa al film, sembra riecheggiare altre limpide indagini sulla scuola, in quella forma felicemente ibrida di cinema e di saggio che se contiene le storie dei suoi personaggi sa farsi però anche aspra critica al sistema che favorisce disuguaglianze.
O ancora la crisi profonda umana e politica dell’utopico e al tempo stesso disilluso Ritorno all’Avana del 2014. Un film sulle speranze tradite, un racconto sull’esilio e sulla sua implacabile malinconia.
Cantet ha saputo esplorare dunque i tratti più segreti di quelle crepe, che denunciano una profonda crisi segno di una stanchezza della società e che ne minano l’impianto. Il suo cinema dialogante si è sempre spinto in una accesa e quasi silente critica, alla ricerca di un punto di frattura che apra al nuovo. Una critica accesa, ma sempre argomentata, ma in fondo il suo era uno sguardo pessimista e non conciliante, per questo non riusciva a diventare famoso e popolare. La sua era sempre una rappresentazione che volava alta, piena di tensioni sotterranee che appartengono a quella ermeneutica sociale che il suo cinema provava a sciogliere in una ricerca che sembrava appartenere più allo studioso che all’uomo di spettacolo.

Aveva chiuso la sua carriera con un film che sembrava aprire una crisi, questa volta dentro il suo stesso pensiero, Arthur Rambo – il blogger maledetto. È il racconto di un uomo della rete, un blogger per l’appunto molto amato, che interpreta il disagio attraverso i mezzi messi a disposizione dalla realtà virtuale. Un giorno si scopre un suo profilo twitter dove con il nome di Arthur Rambo – che riecheggia il nome del famoso poeta maledetto – il blogger si svela essere omofobo e antisemita, in quella crisi del sistema, in quella doppiezza dei possibili profili che la rete, rifugio anonimo, favorisce ma anche smaschera con una certa semplicità.
È forse proprio la semplicità che mai va confusa con la semplificazione il tratto dominante della poetica di Cantet che con occhio sempre dotato di grande umanità ha guardato dentro quelle crisi che appartengono alle nostre culture mostrando i punti di frattura con il suo cinema concettuale e mai conciliante. Non ce ne sono molti come lui ed è per questo che il vuoto lasciato è più profondo.

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