Nessun posto al mondo: intervista alla regista Vanina Lappa

La documentarista ci ha raccontato alcuni elementi cardine del suo secondo lungometraggio. Un viaggio tra le montagne del Cilento e i suoi “abitanti”. Dal 7 maggio in tour per l’Italia

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Vincitore del Premio del Pubblico come Miglior Documentario al 64esimo Festival dei Popoli e visto di recente al 72esimo Trento Film Festival, Nessun posto al mondo è il secondo lungometraggio della regista Vanina Lappa. Un’opera che, otto anni dopo Sopra il fiume (2016), ci riporta nel territorio del Cilento, spostando però il focus su montagne, pastori, transumanze e ingerenze istituzionali. Un film a stretto contatto con la natura di cui la cineasta, che abbiamo incontrato in esclusiva, ci ha raccontato qualche dettaglio in più.

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Puoi darci un inquadramento del progetto? com’è nato e cosa ti ha convinto a rimanere nel Cilento dopo il film precedente?

Mentre stavo girando il mio primo documentario, Sopra il fiume, che parlava delle dinamiche di un paesino dell’entroterra del Cilento, ho conosciuto Antonio, il protagonista di questo secondo lungometraggio, e ho subito capito che lui mi avrebbe portato in una dimensione che andava oltre il paese e che si addentrava verso la montagna, verso la campagna; quindi verso luoghi con delle leggi completamente diverse e un dialetto ancora più stretto. In quel momento mi è sembrato davvero di entrare in un altro mondo e ho dunque deciso di seguirlo perché era un personaggio che mi permetteva di guardare un paesaggio, che mi permetteva di capire, almeno in parte, come funzionano le leggi della montagna e che soprattutto aveva anche dei conflitti con la comunità;  e questi conflitti, secondo me, avevano un grande potenziale nell’ottica di una storia che raccontasse anche qualcosa su di lui.
In che modo hai preparato il tuo ingresso, in quanto “occhio esterno”, nei luoghi che racconti? E che rapporto si è instaurato tra i personaggi e la macchina da presa? 
Personalmente ho cercato di entrare un po’ in punta di piedi. Non mi piace che la mia presenza risulti qualcosa di invasivo. Ma per fare questo ci vuole tanto tempo, perché solo il tempo ti permette di entrare quasi a far parte del paesaggio, di essere accettato e non essere considerato “lo straniero”. Se non sei del luogo rischi di venire considerato un forestiero, il forestiero che arriva dal nord con la telecamera.
Sicuramente il primo film mi aveva aiutato molto a conoscere tante persone, a integrarmi, a farmi amici, ma per questo secondo progetto ho dovuto integrarmi con i pastori della montagna, e quindi fare delle transumanze con loro. All’inizio erano più che altro molto curiosi, ma piano piano la curiosità si è trasformata anche in solidarietà. Vedevano che io ero interessata a quello che facevano, che li filmavo, che parlavo con loro. Perciò, dopo un periodo iniziale in cui hanno avuto bisogno di capire chi ero, mi sono poi sentita completamente accettata.
È un film che si è venuto a formare strada facendo? O se preferisci, c’è stata qualche deviazione dal sentiero che avevi tracciato?
A dire la verità il cambio di percorso è avvenuto quasi subito. Perché inizialmente c’era Antonio, il protagonista, che mi parlava di queste transumanze epiche, di questa processione incredibile dove vanno a portare la Madonna a duemila metri, ed era qualcosa che sentivo di dover vedere. Ad un certo punto però, nel 2018, Antonio mi ha chiamato per dirmi che non avrei potuto riprendere la sua transumanza perché non la poteva più fare. In quel momento ho passato due giorni di lutto, ma è stato allora che ho capito che il film era proprio lì, cioè che quello che mi avrebbe permesso di fare un film derivava proprio da questa “mancanza”. Anzi probabilmente se tutto fosse andato come prestabilito avrei filmato quei momenti senza farne un granché; mentre ho compreso che i suoi conflitti, come dicevo, avevano un potenziale narrativo che mi permetteva di fare qualcosa in più che stare semplicemente a guardare.
Questo è un film che vive molto di silenzi e suoni della natura, della montagna. Allo stesso tempo ci sono anche momenti in cui ti sei presa la responsabilità di togliere quel tipo di rumore a favore di inserti musicali. Come hai lavorato in questo senso?
Sicuramente il suono è una delle componenti fondamentali del film, nel senso che se da una parte ci sono uomini che parlano o scene anche concitate, dall’altra c’è la natura nella quale convivono il silenzio, ma al tempo stesso i rumori con i quali si esprime. Ci siamo tra l’altro divertiti molto in post-produzione a dare anche una sorta di spazializzazione ai suoni. Perchè ovviamente le immagini sono bidimensionali, mentre il suono ti permette di andare fuori e oltre, di dare una tridimensionalità al luogo.
Allo stesso tempo le musiche sono state molto importanti per me, perché, mentre stavo montando – e non avevo ancora deciso se inserirle – mi sono resa conto che il ritmo delle composizioni di Caroline Shaw, la musicista, corrispondeva in larga parte al ritmo delle sequenze che io montavo; si andavano come a intrecciare, a dialogare, e in alcune sequenze mi permettevano di entrare ancora di più in empatia con alcune emozioni, alcune situazioni.
Sul finale, dopo essersi più volte rifiutato, Antonio mette effettivamente il collare al suo nuovo cane. Poi sale in montagna e inizia a fischiare insieme alle aquile. Emerge più speranza o rassegnazione? 
Emerge più che altro la rabbia come sentimento di vitalità. Lui è un personaggio che non si rassegna e non lo farà mai. Mette il collare anche perché il cane è appunto nuovo, lo deve portare a casa, abituarlo e così via. Poi però alla fine va ad emettere quei suoni non perché è tutto quello che gli rimane, ma perché sono i suoi suoni. Quello è il suo posto nel mondo. La libertà che gli rimane è quella di parlare e comunicare con la natura, che è poi ciò che non riesce a fare con gli uomini.
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