Perfect Blue, di Satoshi Kon

A 27 anni di distanza appare ancora come il testamento artistico di una poetica senza eguali, che ha configurato il cinema, e i suoi linguaggi, come specchio dell’interiorità dell’individuo. Immortale

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A distanza di 27 anni, stupisce ancora come ogni inquadratura di Perfect Blue si tramuti in una potente dichiarazione d’intenti: sulla natura effimera dei processi mentali, sulla deumanizzazione dell’industria dello spettacolo nipponico e, per finire, sull’ontologia stessa delle immagini, e delle proprietà iconiche che le contraddistinguono. Non è un caso che del volto di Mima Satoshi Kon ci mostri ossessivamente il suo riflesso attraverso il finestrino di un’automobile in corsa o uno specchio casalingo: una visione, questa, che in apparenza restituisce con fedeltà le fisionomie della protagonista, e del suo universo interiore, ma che in realtà denota delle (micro)differenze evidenti, che se indagate in profondità, appaiono colossali, quasi drastiche, proprio perché si tratta di immagini riflesse: e in quanto tali sono riprodotte, artefatte, rimodulate, e perciò eminentemente false. Al punto che è la stessa fallacità di cui si compongono ad offrire qui lo sfondo su cui si staglia la traiettoria di disintegrazione psichica della ragazza: di una performer il cui divismo è stato concepito a tavolino, e che in continuità con la natura iconica del cinema, si muove ossessivamente tra il piano della realtà e quello della rappresentazione. Fino ad obliterare ogni confine.

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Da qualunque prospettiva la si guardi, Mima non è da intendere semplicemente come un personaggio, ma alla stregua di un’immagine. Sul suo corpo, così come sulla sua carriera di artista, la ragazza non ha alcun controllo o potere decisionale. E lo vediamo sin dalla sequenza d’apertura, nella quale, durante un concerto con il gruppo pop Cham, è costretta ad annunciare il suo ritiro dal palcoscenico (e quindi ad abbandonare la sua stessa identità di “idol”), per perseguire quel futuro da attrice su cui è stata forzatamente immessa dalla sua agenzia. Agli occhi dei suoi manager, deputati a controllare la traiettoria divistica della ragazza, l’unico modo per rendere intramontabile Mima è quella di smarcarla dall’immagine di idol giovanile, proprio perché tale configurazione risulta riproducibile – e quindi consumabile dalle masse – solo nella fascia temporale della gioventù/adolescenza. Ecco allora che la protagonista di Perfect Blue, costretta ad indossare le “vesti” di attrice, inizia a vivere in una costante condizione di sfasamento esistenziale, di cui la scorporazione delle immagini – e perciò il linguaggio filmico – si fa testimone e cassa di risonanza.

Se, a questo punto, la mente diventa la prigione stessa in cui Mima disperde le proprie facoltà percettive, ecco che il cinema – e le immagini di cui si compone – si pone agli occhi di Satoshi Kon come il veicolo fisico e narrativo di questo fragile stato mentale. E più il racconto si inoltra negli spazi della mente, più le immagini che li riproducono si innervano di eventi psicotropi ed onirici, proprio perché la narrazione non opera secondo i dettami della verosimiglianza, ma seguendo le sole logiche del pensiero. Ciò che rende così singolare Perfect Blue, e che ha consentito al film di ritagliarsi nelle ultime tre decadi un posto unico nella storia dell’animazione giapponese e nel panorama globale degli psycho-thriller, è questa assoluta sovrapposizione tra le grammatiche iconiche del cinema e le coordinate psichiche con cui qui Kon codifica la mente della protagonista. Quasi ad affermare che la sintassi cinematografica, scandagliata nella sua essenza più nucleare, sia l’unica forma linguistica che permette di rappresentare la natura “artefatta” di Mima, proprio perché nasce e si origina a partire da immagini creativamente riprodotte.

In quanto idol divenuta (suo malgrado) attrice, la ragazza non esercita un dominio su nessun evento della sua vita, né tanto meno sull’immagine di cui progressivamente si innerva agli occhi del pubblico nel corso della sua carriera divistica. Ed equiparandosi in Perfect Blue ad un’entità-in-divenire, può assumere contemporaneamente diverse forme, e sovrapporre in un’unica immagine l’identità di vittima e di carnefice, di cantante per una folla giovanile e di performer proiettata verso la maturità artistica. Ed è proprio in questo abbattimento di confini, sconfinato poi in una polivalenza delle immagini animate, che Kon individua la massa critica del racconto, fino ad estendere le sue invettive polemiche nei confronti delle disumanizzazioni a cui l’industria dello spettacolo nipponico sottopone le sue artiste, e della natura tossica – e diabolicamente perversa – che si instaura in Giappone tra fan(atici) e divi(nità).

Quando poi si parla di Perfect Blue, e del ruolo “mitopoietico” che il lungometraggio ha esercitato in relazione ai mondi filmici di Kon, non si può che individuare una delle sue (innumerevoli) valenze simboliche nella naturalezza con cui questo film di debutto ha contribuito a codificare i linguaggi del cineasta, incorporando già in sé le tracce delle successive speculazioni filmiche dell’iconico regista.

Ad uno sguardo retrospettivo, lo scardinamento dei processi mentali perseguito in Perfect Blue dal maestro assume ancora più spessore nel momento in cui lo rileggiamo alla luce dei discorsi (poetici, tematici, narrativi) proposti nelle incomparabili pellicole che ne sarebbero di lì a breve seguite. Al punto che la chiave estetica con cui ha reso qui materica l’eviscerazione patologica dei disagi identitari (e da cui Aronofsky ha mutuato le visioni di Requiem For a Dream e Il cigno nero) offre il controcampo per tutte le riflessioni del suo cinema, dalle indagini tra Storia e memoria di Millennium Actress (2001) alle allegorie del sottobosco cittadino di Tokyo Godfathers (2003) fino alle incursioni nei sogni e nelle paure dei giapponesi di Paprika (a sua volta fonte di ispirazione per Inception) e di Paranoia Agent (2007). Una decade di immagini e di visioni allucinanti, che al di là delle varie ramificazioni di cui si sono innervate, hanno indiscutibilmente (ri)configurato il cinema, e i suoi linguaggi, come specchio di interpretazione – e forse anche di rielaborazione – dell’identità dell’essere umano.

Titolo originale: Pâfekuto burû
Regia: Satoshi Kon
Voci: Junko Iwao, Rica Matsumoto, Shiho Niiyama, Masaaki Okura, Shinpachi Tsuji, Emiko Furukawa, Yosuke Akimoto, Yoku Shioya, Hideyuki Hori, Emi Shinohara, Masashi Ebara, Kiyoyuki Yanada
Distribuzione: Nexo Digital
Durata: 82′
Origine: Giappone, 1997

La valutazione della serie di Sentieri Selvaggi
5
Sending
Il voto dei lettori
3.67 (3 voti)

Pros

Cons

 

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